Storia della sifilide
Correva l’anno del Signore 1530 quando l’insigne medico Gerolamo Fracastoro scrisse, in latino, Syphilis sive de morbo gallico, il più conosciuto poema del tempo sulla sifilide. L’opera, divulgata in varie lingue, fu in italiano tradotta dal Benini:
« primieramente era mirabil cosa
che l’introdotta infezione sovente
segni non desse manifesti appieno
se quattro corsi non compia la luna »
Vi si narra la storia di Sifilo, giovane pastore, che, avendo offeso Apollo, viene da questi punito con una terribile malattia che ne deturpa irrimediabilmente la bellezza:
« tosto, pel corpo tutto, ulceri informi
usciano e orribilmente il viso. »
Il medico poeta creò dal nulla questo nome d’uomo o lo estrapolò da simili già esistenti? Di origine greca, araba, ebraica e persino turca sono le varie etimologie proposte da insigni autori (sun-fileo, ossia proveniente dall’amore, secondo il Falloppia?). Ma qualunque sia l’origine della parola “sifilide” si può affermare che il neologismo ebbe una grande risonanza e soppiantò ben presto tutti gli altri nomi con i quali veniva identificato il morbo.
Era il 4 marzo 1493 quando Cristoforo Colombo faceva ritorno dal “Nuovo Mondo” approdando a Lisbona da dove si sarebbe mosso, di lì a poco, verso la Spagna per sbarcare infine a Barcellona: questo l’evento storico da cui trae spunto la cosiddetta “teoria americanista” sull’origine della sifilide, che si abbattè come una epidemia su tutta l’Europa verso la fine del ‘400, accompagnando il sorgere del Rinascimento e gli albori dell’Evo Moderno. Complici lo spostamento di eserciti e popolazioni per le guerre del tempo ed il fiorire di viaggi e commerci caratterizzanti la fine del Medio Evo, dall’Europa il flagello si propagò ben presto al resto del mondo allora conosciuto, diffondendosi anche in Africa settentrionale ed in Oriente e cogliendo la medicina del tempo del tutto impreparata.
La teoria americanista incontrò ampio consenso al primo insorgere della malattia, affascinò buona parte dell’opinione comune e della medicina di allora, fu suffragata dall’autorità di personalità eccellenti. Famosa, a questo proposito, la testimonianza del medico di bordo spagnolo Ruy Diaz de Isla, che nel suo Tractado contra el mal serpentino, scritto nel 1510 e pubblicato nel 1539, asserisce di aver curato, durante il viaggio di ritorno in Europa, molti membri della spedizione di Colombo, affetti da indubbie manifestazioni luetiche e ritiene il nuovo morbo come importato da Hispaniola (Haiti).
Dello stesso parere Bartolomè de Las Casas, dalla cui Historia de Las Indias apprendiamo come tra i primi Conquistadores si fece strada l’idea della “bestialità” dei selvaggi americani, ai quali la malattia sarebbe stata nota già prima che arrivassero i “cristiani”. Peraltro la più moderna storiografia pone l’accento sulla strumentalizzazione di questa idea ai fini dell’asservimento coloniale cui ben presto furono assoggettati gli indigeni: lussuriosi, moralmente corrotti, naturalmente inferiori, «homuncoli» (De Oviedo), bisognosi di essere convertiti e di ricevere, quindi, con la fede anche la schiavitù.
A contrastare la teoria americanista, infatti, esiste un’altra nutrita schiera di autori, i quali non solo hanno suffragato una diversa teoria cosiddetta “antica” o “precolombiana” o “europeista”, ma hanno addirittura negato la novità della malattia. Tra i primi vogliamo citare il grande storico della medicina Sprengel, del quale ricordiamo le suggestive ipotesi di identificazione con la sifilide di alcune forme morbose descritte in opere antiche, da Ippocrate, Plinio il Vecchio, Celso, Galeno ed altri. Emozionante, altresì, la tesi di alcuni autori che vedrebbero il morbo sifilitico già presente nel codice babilonese di Hammurabi (2200 a.c.), dove una malattia con caratteristiche simili alla sifilide, chiamata BENU, viene ritenuta causa di invalidità contrattuale in caso di vendita di uno schiavo malato.
Più vicino ai giorni nostri, anche storici della medicina dell’autorevolezza di Sudhof e dell’italiano Castiglioni hanno contestato la teoria americanista sull’origine della sifilide con le argomentazioni più varie ed avvincenti. All’inizio degli anni Ottanta un antropologo dell’Università del Rhode Island, prof. Marc Kelly, ha scoperto il cranio di una giovane donna indiana, morta di sifilide, con le ossa del naso completamente disfatte dalla malattia. Dato che il processo di disgregazione ossea si verifica nel corso di anni, la donna non doveva avere alcuna resistenza alla sifilide, ed il fatto che gli indiani fossero privi di difese di fronte a tale male farebbe pensare che siano stati i marinai spagnoli ad esportare la lue oltre oceano. Tale ipotesi sarebbe confermata dalla violenza delle epidemie di sifilide tra gli indiani intorno al 1600.
Peraltro è opportuno sottolineare che i più recenti studi di biologia molecolare e di biochimica condotti su reperti ossei appartenenti all’area del bacino mediterraneo, di epoca anteriore al 1400, non hanno rilevato, fino ad oggi, tracce certe della malattia. Viceversa, indagini similari hanno evidenziato lesioni sifilitiche in reperti ossei provenienti dalle aree geografiche del “Nuovo Mondo”.
A nostro parere diventa difficile chiarire in modo definitivo tale diatriba, né questo, del resto, è il nostro intento. Vogliamo solo ipotizzare che la malattia sia sempre esistita in forma attenuata, con sviluppo endemico e variamente descritta, ma che, in un determinato momento storico, un coacervo di fattori socio-economici concomitanti, tra i quali non ultimi lo spostamento massiccio di eserciti e popolazioni per le numerose guerre ed il fiorire dei viaggi e commerci tipico dell’Evo Moderno, fece sì che il morbo assumesse un aspetto aggressivo e pandemico.
Del resto nei secoli successivi, benché non fosse stata ancora individuata la terapia specifica e risolutiva (basti pensare che fino ai primi del ‘900 l’unico farmaco utile era ancora il mercurio, nel 1910 Paul Ehrlich introdusse l’arseno-benzolo e solo nel 1928 Fleming scoprì la penicillina, prodotta su scala industriale nel 1941), la malattia andò assumendo, forse anche con il miglioramento delle condizioni socio-economiche e quindi igienico-alimentari, forma più attenuata nel suo manifestarsi ed aspetto endemico.
In Italia il morbo si manifestò in forma epidemica nel 1494 con l’assedio di Napoli ad opera delle truppe francesi al comando di Carlo VIII morto anch’egli all’età di 28 anni, pare per sifilide cerebrale (G. Del Guerra). Era al seguito dell’esercito francese un gruppo di circa 800 prostitute e non c’è dubbio che proprio la diffusione del meretricio negli eserciti e tra la popolazione contribuisse in massima parte a propagare quello che nella nostra penisola fu chiamato il «mal francese», da cui il termine «infrancesato», mentre per i Francesi era il «mal napolitain». A Roma, verso la fine del ‘400, si contavano circa 6800 meretrici, escludendo le clandestine. A Venezia le prostitute erano costrette a girare con un fazzoletto giallo intorno al collo come segno di riconoscimento.
Fu l’astinenza sessuale il provvedimento che la Chiesa adottò come rimedio per contrastare tale malattia, ed il Pontefice Paolo IV, intorno alla metà del ‘500, decretò con un editto la cacciata da Roma e da tutto lo Stato Pontificio delle prostitute. Il malcontento popolare costrinse la Chiesa a trovare una sede dove fosse possibile praticare il meretricio lontano dalla città: si decise per una località al di là del Tevere, oggi Trastevere.
Il continuo propagarsi del contagio indusse Carlo IX ad adottare ulteriori misure restrittive, tollerando l’apertura soltanto di determinate “case” dove si esercitava il meretricio, da cui il nome di “case di tolleranza”. Le donne risultate sifilitiche, raccontano gli storici, venivano isolate e addirittura fustigate, prima e dopo la cura, a Parigi. A Vienna si consentiva invece al volgo l’ingresso nei luoghi di cura per deriderle. Nel suo De preservatione a carie gallica del 1555, Gabriele Falloppia ideò una protezione individuale al mal francese, consistente in una pezzuola di lino a forma di sacchetto «ad mensuram glandis» imbevuta di medicamento (mercurio): era l’antesignano del moderno profilattico. Ciò nondimeno la malattia continuò a mietere vittime in tutti i ceti sociali, senza risparmiare clero e nobiltà. Illustri malati furono Francesco I re di Francia ed il pontefice Giulio II.
Benché si invocassero i Santi protettori san Giobbe e san Dionigi, gli astrologi studiassero i pianeti cercando rimedio alla congiunzione negativa di Giove con Saturno nel segno dello Scorpione, foriera di calamità, e si attribuissero poteri terapeutici al legno di Guaiaco delle Antille, chiamato «legno Santo», fu la scienza medica che nella prima metà del novecento trasformò un morbo che seminava morte e disperazione in una malattia curabile e guaribile: la «sterilisatio magna» auspicata da Ehrlich si potè perseguire solo con l’introduzione della terapia penicillinica.
Sono passati cinque secoli dall’esordio epidemico della sifilide e ci piace immaginare che, tra qualche tempo, un articolo simile a questo descriva una grave malattia venerea, ormai completamente curabile, che dilagò in forma grave, trovando al suo insorgere completamente impreparata la medicina del tempo, fece di nuovo parlare la Chiesa di astinenza sessuale e i benpensanti di castigo divino… e che gli uomini del XX secolo chiamavano AIDS.
L’articolo è tratto da www.doctornews.it